Storia di una capinera
Storia di una capinera di Giovanni Verga è stato il mio primo "serio" libro che ho letto. Avevo 9 anni e, invogliata da mio fratello, ho preso questo libro e lo porto sempre nel cuore. Forse perchè è stato il primo. Prima di questo ero amante delle favole e delle fiabe, come tutte le bambine. Ancora oggi conservo una favola tutta mia al quale da bimba sognavo di rispecchiarmi nel personaggio.
"... si può impazzire d'amore?"
E' la frase che più mi ha colpita del libro.
Storia di una capinera è un romanzo epistolare di Giovanni Verga. Fu scritto tra il giugno e il luglio 1869, durante il soggiorno dello scrittore a Firenze. Il 25 novembre 1869, tornato temporaneamente a Catania, Verga spedisce il romanzo a Francesco Dall'Ongaro, scrittore fiorentino, il quale ne rimase soddisfatto al punto da riuscire a farlo pubblicare dall'editore milanese Lampugnani (nella sua sede di Milano, in via San Giuseppe, al numero civico 3). Al 1871 risale, perciò, la prima pubblicazione ufficiale del romanzo, apparso dapprima all'interno della rivista di moda La ricamatrice e poi in volume. In realtà, però, il romanzo era stato già pubblicato nel 1870 a puntate su un'altra rivista del Lampugnani, ovvero il Corriere delle dame (anno LXVIII, dal numero 20 del 16 maggio 1870 al numero 34 del 22 agosto 1870), semplicemente con il titolo La capinera. La prima edizione del volume conteneva come prefazione la lettera con cui Dall'Ongaro aveva accompagnato l'invio dell'opera alla scrittrice Caterina Percoto, anche lei ferma sostenitrice del romanzo. Dal 1922, e in tutte le successive edizioni, comparve anche la prefazione scritta da Federico De Roberto, contenuta in un saggio sul Verga intitolato Casa Verga e altri saggi verghiani.
Curiosità:
Verga introduce il romanzo spiegando il motivo che lo ha portato ad intitolarlo proprio Storia di una capinera:
« Avevo visto una povera capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia ci guardava con occhio spaventato; si rifuggiava in un angolo della sua gabbia, e allorché udiva il canto allegro degli altri uccelletti che cinguettavano sul verde del prato o nell'azzurro del cielo, li seguiva con uno sguardo che avrebbe potuto dirsi pieno di lagrime. Ma non osava ribellarsi, non osava tentare di rompere il fil di ferro che la teneva carcerata, la povera prigioniera. Eppure i suoi custodi, le volevano bene, cari bambini che si trastullavano col suo dolore e le pagavano la sua malinconia con miche di pane e con parole gentili. La povera capinera cercava rassegnarsi, la meschinella; non era cattiva; non voleva rimproverarli neanche col suo dolore, poiché tentava di beccare tristamente quel miglio e quelle miche di pane; ma non poteva inghiottirle. Dopo due giorni chinò la testa sotto l'ala e l'indomani fu trovata stecchita nella sua prigione. Era morta, povera capinera! Eppure il suo scodellino era pieno. Era morta perché in quel corpicino c'era qualche cosa che non si nutriva soltanto di miglio, e che soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete.Allorché la madre dei due bimbi, innocenti e spietati carnefici del povero uccelletto, mi narrò la storia di un'infelice di cui le mura del chiostro avevano imprigionato il corpo, e la superstizione e l'amore avevano torturato lo spirito: una di quelle intime storie, che passano inosservate tutti i giorni, storia di un cuore tenero, timido, che aveva amato e pianto e pregato senza osare di far scorgere le sue lagrime o di far sentire la sua preghiera, che infine si era chiuso nel suo dolore ed era morto; io pensai alla povera capinera che guardava il cielo attraverso le gretole della sua prigione, che non cantava, che beccava tristamente il suo miglio, che aveva piegato la testolina sotto l'ala ed era morta.Ecco perché l'ho intitolata: Storia di una capinera. »
Verga introduce il romanzo spiegando il motivo che lo ha portato ad intitolarlo proprio Storia di una capinera:
« Avevo visto una povera capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia ci guardava con occhio spaventato; si rifuggiava in un angolo della sua gabbia, e allorché udiva il canto allegro degli altri uccelletti che cinguettavano sul verde del prato o nell'azzurro del cielo, li seguiva con uno sguardo che avrebbe potuto dirsi pieno di lagrime. Ma non osava ribellarsi, non osava tentare di rompere il fil di ferro che la teneva carcerata, la povera prigioniera. Eppure i suoi custodi, le volevano bene, cari bambini che si trastullavano col suo dolore e le pagavano la sua malinconia con miche di pane e con parole gentili. La povera capinera cercava rassegnarsi, la meschinella; non era cattiva; non voleva rimproverarli neanche col suo dolore, poiché tentava di beccare tristamente quel miglio e quelle miche di pane; ma non poteva inghiottirle. Dopo due giorni chinò la testa sotto l'ala e l'indomani fu trovata stecchita nella sua prigione. Era morta, povera capinera! Eppure il suo scodellino era pieno. Era morta perché in quel corpicino c'era qualche cosa che non si nutriva soltanto di miglio, e che soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete.Allorché la madre dei due bimbi, innocenti e spietati carnefici del povero uccelletto, mi narrò la storia di un'infelice di cui le mura del chiostro avevano imprigionato il corpo, e la superstizione e l'amore avevano torturato lo spirito: una di quelle intime storie, che passano inosservate tutti i giorni, storia di un cuore tenero, timido, che aveva amato e pianto e pregato senza osare di far scorgere le sue lagrime o di far sentire la sua preghiera, che infine si era chiuso nel suo dolore ed era morto; io pensai alla povera capinera che guardava il cielo attraverso le gretole della sua prigione, che non cantava, che beccava tristamente il suo miglio, che aveva piegato la testolina sotto l'ala ed era morta.Ecco perché l'ho intitolata: Storia di una capinera. »
Il romanzo è in parte autobiografico: prende spunto, infatti, da una vicenda vissuta in prima persona da Giovanni Verga in età giovanile. L'episodio risale all'estate 1854-1855 quando, in seguito all'epidemia di colera che si era scatenata su Catania, la famiglia Verga si rifugia a Tebidi, una località tra Vizzini e Licodia. Giovanni Verga, all'epoca quindicenne, si innamora di Rosalia, giovane educanda del monastero di San Sebastiano (Vizzini), dove è monaca anche sua zia. Rosalia, anche lei a Tebidi per sfuggire al colera, era «una creatura soave, una figura ideale, una bellezza pallida e bruna, un fiore di simpatia. Finché durò l'epidemia, la vide assiduamente, sussultando al suo apparire, tremando nel parlare con lei, sentendo schiudersi le porte del paradiso quando la prendeva per mano e le cingeva col braccio la vita sottile nell'ebrezza del ballo. Cessata l'epidemia, la giovinetta aveva ripreso il suo posto nel monastero; ma egli l'aveva riveduta lì dentro, tutte le volte che era tornato a Vizzini; perché a S. Sebastiano c'era una sua zia monaca e andando a visitarla nel parlatoio egli scorgeva il profilo della educanda» (Federico de Roberto, Casa Verga e altri saggi verghiani, a cura di C. Musumarra, Firenze, 1964).
Secondo un'indagine svolta agli inizi del '900 dalla Società Bibliografica di Milano, Storia di una capinera ebbe un tale successo di pubblico da vendere circa ventimila copie in poco più di vent'anni.
Il romanzo è stato tradotto anche all'estero, e più precisamente in Inghilterra, Francia, Ungheria e Austria.
Secondo un'indagine svolta agli inizi del '900 dalla Società Bibliografica di Milano, Storia di una capinera ebbe un tale successo di pubblico da vendere circa ventimila copie in poco più di vent'anni.
Il romanzo è stato tradotto anche all'estero, e più precisamente in Inghilterra, Francia, Ungheria e Austria.
(informazioni tratte da Wikipedia)
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